Di recente ho iniziato ad occuparmi di dispersione scolastica, quel fenomeno che ai tempi di mio padre e di mia madre era dovuto prevalentemente al bisogno economico familiare, che spingeva i genitori a scegliere chi dei loro figli avrebbe ‘potuto’ continuare a studiare dopo la scuola dell’obbligo e chi invece avrebbe ‘dovuto’ contribuire alla formazione del reddito familiare. Esistevano dei ‘devo’ non scritti, che spesso determinavano un investimento della famiglia sulla formazione dei figli più giovani, mentre i primogeniti, a meno che non fossero maschi e particolarmente portati per lo studio, venivano precocemente in contatto con il mondo del lavoro, sostenuti e spronati da un profondo senso di lealtà familiare, che rendeva lo sforzo e la rinuncia personale funzionali alla sopravvivenza del gruppo famiglia.
I ragazzi che incontro hanno generalmente interrotto la scuola superiore dopo alcuni tentativi in Istituti diversi, la resa generalmente si è presentata in seguito ad un progressivo processo di disinvestimento della formazione, accelerato dall’aumento della frustrazione nel confronto con il mondo della scuola, in assenza di una rete familiare solida alle spalle.
Nell’incontro con la maggior parte di questi giovani adulti mi ha colpito il sentimento di solitudine che ho percepito, una solitudine legata ad un senso di responsabilità di sè e del proprio ‘dovere’, come se essi dovessero affrontare tutto da soli, come se non potessero appoggiarsi alla famiglia e godersi gli anni della formazione. L’urgenza è palpabile in questi colloqui. Ho provato a chiedere ad uno di loro perchè fosse per lui così importante trovare un lavoro nell'immediato, tanto da non poter nemmeno prendere in considerazione la possibilità di tornare a studiare almeno per qualche anno, dal momento che la situazione economica familiare era piuttosto stabile; la risposta è stata più o meno questa “Ora ho compiuto i diciotto anni, adesso deve cambiare per forza qualcosa, devo essere più responsabile, devo essere autonomo e lavorare per il mio futuro”. Una risposta piena di ‘devo’, per certi versi irreprensibile, che rimanda ad un ideale d’autonomia molto forte e un pochino ‘contro corrente’, se si tiene conto che da diversi anni la nostra nazione affronta il fenomeno contrario, quello dei così detti eterni ‘ragazzi’, anche conosciuti con l’espressione di ‘bamboccioni’.
Riflettendo su quanto ho scritto, mi sembra di trovarmi di fronte ad una tendenza diversa ma anche familiare, che non riassume in sè tutti i casi d’abbandono scolastico, ma che certamente è rappresentativa di un certo numero di essi e che mi richiama alla memoria un tema molto affrontato dalla letteratura, quello dei riti di passaggio e della loro progressiva evoluzione.
Come si diventa adulti oggi? Come si diventa autonomi se si studia fino a trent’anni e si vive con la famiglia fino al matrimonio? È sposandosi che si diventa adulti? E se non ci si sposa? È vivere da soli che rende adulti? È il lavoro che segna un passaggio certo, sicuro e riconosciuto?
Nell’incontro con questi ragazzi sento il loro bisogno di segnare la fine di una fase, segnarla per dire ‘Sono già oltre’, come se l’incertezza, che caratterizza il periodo adolescenziale, sia diventata intollerabile e ci fosse il bisogno di fermarsi su qualcosa, attaccandovisi per darsi un senso.
Le mie ipotesi derivano anche dall'ascolto dei racconti di questi giovani adulti, con la loro esplorazione delle identità possibili, la scelta di una di esse, una moda, uno stile di vita, generalmente vissuta poi come fallimentare. Il più delle volte ad un iniziale irrigidimento entro una scelta identitaria, che ha travolto ogni aspetto della loro quotidianità, è seguito un suo disinvestimento più o meno rapido, accompagnato dal viscerale bisogno di ancorarsi a qualcosa di solido, perchè restare in mezzo al ‘mare’ delle strade possibili era ed è ancora troppo frustrante.
A questo credo si aggiunga un forte il bisogno di dimostrare competenza a se stessi, servendosi del lavoro come di un mezzo concreto per vedersi riconosciuta un’agognata autonomia ed un’identità spesso molto sfuocata che forse lo sarebbe meno se potesse vantare un lavoro ed un’entrata economica, quasi un modo per dire ‘Io funziono, anche se nella scuola non ce l’ho fatta, nel lavoro ho trovato il mio riscatto’! Da qui viene la grinta che queste giovani donne e questi giovani uomini portano nei colloqui, la speranza e lo sguardo sono concentrati sul futuro, come se fosse recente la scoperta di poter indirizzare il proprio processo senza subirlo. È grande la voglia di tenere le redini con consapevolezza, di sapere dove si vuole andare, di non essere diretti. Tuttavia sempre più spesso, nel conoscere questi giovani adulti, constato che il maggior impedimento per loro è quello della relazione, la relazione con l’altro, piena di potenziali provocazioni ed incomprensioni, vissuta spesso con molta pancia e poca mente, con i fatti più che con le parole. In sostanza il problema a volte per questi ragazzi è quello della tenuta, delle capacità diplomatiche carenti, degli impulsi fuori controllo, dell'aggressività ancora goffamente gestita, che spesso finisce con l’attivare acting di vario tipo (scontro, fuga, ritiro, evitamento..) che di frequente portano all’accumulo di diversi fallimenti scolastici e lavorativi. La consapevolezza del ruolo che questa difficoltà relazionale porta nel perseguimento dei propri obiettivi è scarsa, a volte assente, ancora offuscata da quella visione rigidamente ‘egocentrica’, che impedisce di cogliersi nelle situazioni e di mettersi in discussione.
Per questo penso che la possibilità di fruire di spazi d’incontro protetti, in cui ricostruire la propria storia e riconoscere le proprie competenze e le proprie risorse, sia una condizione importante per facilitare questi ragazzi nell’acquisire una maggior consapevolezza di sè, così da mettere meglio a fuoco i propri bisogni e le diverse sfumature della propria identità.
Dall’incontro con l’altro deriva inevitabilmente una nuova consapevolezza di sè e la possibilità di modificare i propri atteggiamenti, così da renderli più funzionali. Tale crescita permette di giungere alla scelta lavorativa con una più ampia conoscenza delle proprie risorse e dei propri limiti e con maggiori competenze relazionali, lasciando per altro aperta anche la possibilità di un futuro ritorno sui banchi di scuola, magari quella serale. Nei colloqui con queste giovani donne e con questi giovani uomini mi sento efficace quando nell’arco degli incontri riesco a cogliere quel processo d’apertura alle diverse possibilità che rende meno rigidi i ‘devo’ e più visibili i bisogni profondi di ciascun individuo.