"Quando un albero è ferito, cresce attorno a quella ferita" Peter A. Levine

venerdì 30 dicembre 2011

giudicare o lasciarsi stupire?

Credo che i regali di Natale siano un'ottima occasione di cogliere come siamo visti dagli altri, o meglio cosa gli altri si aspettino da noi.
Riflettevo oggi in particolare su come a volte chi ci è intorno sia certo di conoscerci profondamente e su come neanche per un istante metta in dubbio che, se sei donna, ti piacerà cucinare e che, se non ti piace, imparerai, oppure se sei un uomo gradirai dei cioccolatini al rum, e se non è così...che uomo sei??
Quanto si fatica ad approcciarsi al prossimo con curiosità, senza dar per scontato ciò che l'altro sia o debba essere, e quanta fatica si fa a crescere in un mondo dove, sebbene non sia scritto da nessuna parte, è un po' come se ogni esistenza sia tacitamente legittimata solo entro certi ranghi e nel rispetto di certi 'stereotipi'.
A questo proposito ricordo la mia visita ad una galleria d'arte nel cuore di Manhattan, sin dall'ingresso del grande appartamento intonacato di bianco, era intenso il profumo di...... terra, terra grassa, ricca, umida, come quella di un campo appena arato. L'appartamento era completamente pieno di terra ed i vetri alle finestre erano pieni di condensa.
Lo spettacolo era surreale, intenso, meraviglioso. Lo splendore era dato dalla meraviglia che si provava a quella vista, così insolita, inconsueta eppure trionfante, geniale.
Mi chiedo quanto concediamo alle persone di stupirci e piacerci allo stesso modo anche nello stupore, nell'insolito dell'esserci per quello che sono e non per quello che, noi crediamo, esse dovrebbero essere.
Se ci ripenso, non sono molti gli spazi e le relazioni in cui mi sia sentita concedere a priori la libertà di essere me stessa, per quello che ero, senza provare la sensazione di deludere aspettative o contravvenire a regole e norme 'scontate'.
Mi rendo invece conto che il più delle volte questa libertà è stata possibile perchè io per prima l'ho posta come condizione indiscutibile nelle mie relazioni, rifiutando di conformarmi alle aspettative o alle abitudini dei miei interlocutori.
In poche parole mi sono accorta che più io per prima mi libero di una serie di aspettative e costrutti verso me stessa, tanto più diventa un'esigenza profonda sentirmi libera dalle stesse 'briglie' anche di fronte allo sguardo dell'altro.
Sempre più mi accorgo che essere guardata e giudicata in base a stereotipi e pregiudizi mi ferisce, mi fa sentire non vista, non guardata per quello che sono, non ascoltata per quello che dico e che porto nella relazione e quando questo succede, sento solo una gran distanza dall'altro e questo mi rattrista.
Vorrei che le persone potessero guardarsi tra loro così come io ho potuto guardare quella distesa di terra, racchiusa in quell'open space di lusso al centro di NYC, con stupore, meraviglia, curiosità, ma soprattutto con lo sguardo scevro da schemi, paradigmi, e cornici pre-definite, rigide, imbriglianti.
Sarebbe più facile 'essere e basta' in un mondo del genere.

sabato 24 dicembre 2011

lo sguardo tenero

Mi è capitato di recente di avere la fortuna di fare alcune scoperte su me stessa. Di sentire e provare sentimenti ed emozioni che non avevo prima ascoltato, ai quali prima non avevo dato importanza, o più sinceramente sentimenti che non volevo riconoscere e riconoscermi.
Detto questo, trovo che sia stato fondamentale per me poter fruire di uno spazio d'incontro facilitante, che mi aiutasse a meglio centrarmi su me stessa.
Chi mi ha ascoltato era lì per me. Ascoltava senza giudizio, entrava delicatamente nei miei contenuti e mi aiutava a guardarli da tante diverse angolazioni. Mi ha portato a guardarmi dentro, ha facilitato uno sguardo pulito, scevro da giudizio, dai miei giudizi innanzi tutto.
Ho potuto così confessarmi sentimenti di amore ed odio che provo, che sento per persone che incontro. Sentimenti, entrambi, che mi mettono a dura prova....eppure in questo momento sento che c'è spazio e diritto anche per loro, per questa parte del mio sentire, prima scomoda, ora legittima... sento quanto sia potente riuscire a guardare a me stessa con tenerezza, persino quando ciò che sento, macchia un po' quell'immagine ideale di me che a lungo ho cercato d'imitare e perseguire.
In questo momento sento che rivolgo lo sguardo a queste mie sfumature, ai vissuti sottostanti, che scorgo ogni qual volta sento e riconosco una mia emozione e mi chiedo 'che dice di me? Sentirla qui, in questo momento, di fronte a questa persona cosa mi narra dei miei bisogni, dei miei desideri, delle mie paure?' ... e quindi mi accorgo che lo sguardo, prima proteso all'esterno, di nuovo torna a me, in un fluire delle cose, che è innanzi tutto fluire mio, del mio apprendimento su me stessa, della mia crescita.
In questo giorno di vigilia, mi accorgo di questo grande regalo che sto iniziando a scartare, che è lo sguardo tenero verso quello che sono, la benevolenza verso il mio modo di essere.
Qualcuno in passato ha scritto 'Niente è vero, tutto è permesso' - mi piace pensare che si riferisse all'unicità di ogni creatura, all'infinito numero di possibilità di essere ed all'assurdità di pensare per assolute verità, spesso ingombranti, scomode, lontane da quello che si è, ma soprattutto da quello che si sente.
Buon Natale!

mercoledì 5 ottobre 2011

fascino dei mulini a vento

Stavo pensando a certe 'trappole' in cui mi è capitato di cadere, a quanto mi sia sentita bloccata entro una situazione impossibile, paradossale, in cui ognuna delle uscite contemplava il fallimento, mentre il restare 'in gioco' portava per definizione al logoramento lento e progressivo.
Forse sto parlando di una sorta di lotta contro i mulini a vento, laddove smettere talvolta significa riconoscere l'inutilità del proprio gesto, la forza dei propri limiti, la potenza dell'opinione pubblica e dove... continuare, perseverare porta, alla lunga, allo sfilacciamento della propria salute, fisica, mentale, sociale, spirituale che sia.
Ricordo che per anni ho vissuto cercando d'incarnare due frasi, che mi erano rimaste impresse. La prima l'avevo trovata scritta su di una maglia abbandonata per strada nella città di Padova, recitava così: 'Never stop the action', una sorta di monito a non fermarsi mai, a continuare... decisamente in linea con il ritmo della nostra società; l'altra era una frase, che era stata scandita a piena voce da un personaggio di una soap-opera e che io avevo sentito quando ancora vivevo con mia madre. Questa seconda frase recitava: 'La perseveranza è la madre del successo' ed io, appena l'avevo udita, ne avevo sentito la forza e la decisione, l'avevo subito fatta mia.
In un certo senso mi trasmetteva un senso di potenza, di possibilità di fare qualunque cosa...se mi ci fossi messa, non riuscivo ancora a vedere il significato (al negativo) che questa frase portava con sé, ovvero: 'se non raggiungi l'obiettivo, significa che non ti sei impegnato abbastanza' ed ora che lo scrivo ne sento tutta la violenza, la rigidità ed il giudizio insito in questa frase.
Ora sono qui a chiedermi, quand'è il momento invece di onorare un proprio limite e ritirarsi da un gioco, così da permettersi di entrare in qualcosa di nuovo? Quanto è difficile riconoscersi il diritto di 'mollare', quanto lo possiamo tollerare?
Se penso a me stessa, rivedo la fatica fatta per imparare ad accettarlo ed ancora oggi mi sento talvolta presa dal bisogno di riuscire, senza compromessi, di ottenere un certo risultato; ed ora qui, mentre scrivo, mi chiedo, che dice questo di me? Perchè certi obiettivi 'devono essere raggiunti?'
Sembra quasi che il non raggiungerli tolga legittimità all'esistenza, come se ci si fosse talvolta convinti....o ...si sia...stati convinti......che se non si raggiunga un certo risultato, se non si conquisti un certo obiettivo.....non abbia senso nulla....non vada bene.....non si vada bene. E mentre scrivo mi accorgo di quanto poco rispetto ci sia per sé stessi, per la legittimità dei propri limiti, che fanno parte di noi e che troppo spesso nessuno ci ha insegnato ad onorare. Io stessa sento la fatica di ammettere che la perseveranza coatta e cieca logora, consuma, disumanizza e di per sè toglie sapore, spessore e valore all'obiettivo, rende ciechi a tutte le altre strade che s'incrociano e che non si colgono.
Mi ha sempre colpito la preghiera che si recita alle riunioni dei gruppi di auto-aiuto per alcolisti anonimi, recita: "concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle che posso cambiare e la saggezza di riconoscere la differenza", credo che se riuscissimo ad avere tanta saggezza, tanta consapevolezza di noi stessi, tanto amore per le nostre potenzialità e per i nostri limiti, non cadremmo più nelle trappole dei mulini a vento, che troppo spesso sono ovvie per chi osserva, ma non altrettanto per chi è immerso nella battaglia. Ma il punto non è nemmeno questo, siamo noi gli unici a poter rispondere davvero alla domanda: sto rispettando me stessa, con tutto ciò che sono? sto onorando le mie risorse ed i miei limiti? Li accetto? E se non riesco ad accettarli, che paure si nascondono in essi? Che vorrebbe dire per me ammettere di averli?
Il mulino a vento a vedersi affascina, il primo che ho visto è in questa fotografia e mentre lo osservavo e ci giravo intorno pensavo: è solo un mulino!
Sembra sciocco...eppure mi ci sono voluti anni per liberarmi dal fascino della battaglia impossibile, della battaglia che ha valore in se stessa, sebbene non abbia prospettive concrete, perchè dice a tutto il mondo, in primis a se stessi: ci stai provando!.....anche quando sanguini e non hai più fiato.

giovedì 25 agosto 2011

spazi di vita selvaggia



Di recente, grazie ad un viaggio all'estero, mi sono imbattuta in uno strano giardino. una metà era decorata da aiuole ordinate, fiori dall'abbinamento cromatico ricercato, cespugli finemente sagomati ed erba tagliata, l'altra metà era assolutamente selvaggia, intricata, densa, con steli d'erba freschi attorcigliati a quelli secchi e fiori di campo che qua e là lottavano per mostrarsi alla vista. Quel giardino, per altro attorno ad una chiesa dalle origini piuttosto antiche, portava un cartello 'esplicativo'.... che spiegava come deliberatamente si fosse scelto di lasciare una parte del giardino alla vita selvaggia, a haven for wildlife...
Quella scritta mi ha fatto pensare, l'ho sentita vicina..... Chi ha deciso che sia più bello un giardino ordinato e 'manufatto, rispetto ad uno 'abbandonato' a se stesso'? Già la parola abbandonato gli attribuisce un senso di degrado, di caduta.....di resa..... Che cosa si perde rinunciando a lasciar fare alla natura? Alla natura delle piante, dei fiori..... alla natura delle cose?
Mi ha colpito come questo pensiero tanto semplice, fosse di fatto per me così 'rivoluzionario', nuovo...forse per il paese e la cultura da cui provengo, forse per il mio carattere...ed allo stesso tempo ho realizzato il dono prezioso che stavo ricevendo....ovvero: un nuovo punto di vista, più aperto, più possibilista, più tollerante.
Dove releghiamo il nostro spazio per la vita selvaggia? Per quella spontaneità talvolta trasgressiva, altre volte socialmente scomoda, altre ancora....faticosa d'assecondare, solo perchè ci porta verso direzioni nuove e poco chiare?
Mi sono resa conto che la cultura del controllo di tutte le variabili, non è semplicemente poco realistica, ma è diventata deleteria ed ha condizionato pesantemente la capacità della persona di guardare al 'disordine' materiale, fisico, mentale con occhio incuriosito, affascinato, compassionevole, fiducioso.......questo accade specialmente con le persone che ci circondano. Vero è che la cultura crea schemi di costruzione della realtà che con estrema facilità diventano assoluti e che bloccano l'apertura alla diversità, agli altri modi di vedere o fare una cosa....
Il viaggio è uno strumento efficace per continuare o imparare a vedere più di un punto di vista... il contatto con culture diverse mi allena a guardare allo stesso fenomeno con più occhi, ed il viaggio nelle relazioni autentiche con gli altri...... beh.....sortisce lo stesso effetto.
Sento il bisogno di coltivare il mio paradiso per la vita selvaggia, quella fatta di spontaneità, emozioni immediate, impulsi nuovi ed inattesi, movimenti liberatori e fluidi, scelte apparentemente irrazionali...ma sentite, spazi....lasciati liberi di essere... persone accettate per quello che sono.
Quanto è pacificante tutto questo!
Quanto è in armonia con la natura!
Quanto esprime fiducia per la vita e per la sua ciclicità!

martedì 26 luglio 2011

la strada che sento



Oggi mi sono fermata a pensare a come le direzioni che prendiamo e la sicurezza che ci da imboccare una strada....in realtà...cambino di continuo.
Mi sono accorta di come per tanto tempo sia stato facile non pormi particolari obiettivi e vivere alla giornata.
Quando esci di casa e sperimenti l'autonomia completa, trasferendoti lontano dalla famiglia..credo che hai la grande occasione di misurarti con le tue forze e con te stessa in modo profondo. Un contesto nuovo, una nuova rete da costruire, un nuovo lavoro da cercare..queste ed altre esigenze mi hanno spinto a trovare il modo di 'costruire' parte di quello che sono oggi.
Guardandomi indietro credo di essere progressivamente passata dallo 'sbarcare il lunario' allo scegliere di cosa volessi occuparmi. Inizialmente il bisogno di lavoro era tale che qualunque cosa andava bene, eppure, se ci ripenso vedo che in ogni esperienza ho maturato delle competenze, in ogni lavoro ho conseguito degli apprendimenti. Ho lavorato con bambini portatori di diagnosi e difficoltà diverse, sono stata a stretto contatto con la devianza, con la trasgressione degli adolescenti e dei giovani adulti, ho affiancato nelle loro fatiche e nel loro dolore donne, che si prostituivano per aiutare la famiglia o perchè soggiogate da minacce e ritualità difficili da comprendere per la nostra cultura 'occidentalizzata', ho lavorato in carcere, ho conosciuto la sofferenza del senso di colpa, la frustrazione delle provocazioni, la falsa innocenza..ed anche quella vera, che non si proclama nemmeno più. Nella mia tarda adolescenza ho lavorato anche dietro al bancone di un bar, ho visto migliaia di visi negli orari più disparati ed ho ascoltato le confidenze più diverse, le storie più strane.
Ora sono qui, che ripenso a tutte queste esperienze, negli ultimi anni pensavo che portassero tutte in un'unica direzione, ad un'unica professione, in un unico luogo, ma ultimamente è come se la strada si aprisse, si suddividesse in strade diverse. Ricordo la poesia di Robert Frost, che parla di un uomo che, di fronte ad un bivio, prese la strada meno battuta, quella che non portava alle sicurezze assolute ed alle decisioni semplici ed immediate, ma che si apriva ad una successione di curve imprevedibili e prometteva semplicemente il cambiamento, continuo, costante. Quello che voglio dire è che oggi mi sono fermata e mi sono chiesta se il mio tendere nella direzione in cui sto andando... stia effettivamente diventando per me più un dovere che un piacere... e quello che mi stupisce è che pormi questa domanda, invece che gettarmi nel panico e nell'incertezza, mi solleva da un senso di pesantezza e mi fa sentire più libera ed aperta.....a quello che succederà..
Credo sia bello, importante avere degli obiettivi, ma mai come in questo momento ho sentito i rischi connessi a centrarsi verso un 'Arrivo'..come se solo da quello dipendesse la propria realizzazione. Ora sento che per me è meglio esplorare le strade sterrate della campagna con la mia bicicletta, sentire il profumo dell'aria entrarmi dentro e perdermi a guardare i colori e le sfumature delle cose... lascio ad altri la corsa nell'autostrada mono-direzionale, io voglio dare fiducia al mio ritmo ed al mio intuito.

giovedì 14 luglio 2011

Abbracci caldi o freddi?



Mi riscopro a pensare alle relazioni, specie a quelle familiari. A quante energie genitori e figli spendono ed investono nello stare in famiglia, nel far parte di essa, in modo più o meno consapevole, più o meno ambivalente.

Da bambina avevo una strana attrazione per i 'quadretti familiari', mi piaceva osservare quelle famiglie 'girovaghe', che portavano i figli a fare viaggi, escursioni, che li portavano a mangiare fuori, che li coinvolgevano nei discorsi e che s'interessavano del loro stato d'animo. Mi perdevo a guardare quelle relazioni così piene nella gioia e nel dolore, dove bambini ed adulti si scambiavano abbracci e parlavano 'con il cuore in mano', parlavano del dolore, del dispiacere, parlavano di amore, di gioia, parlavano di emozioni, parlavano di quello che sentivano proprio da persona a persona e non da adulto a bambino, nè da genitore a figlio. Sentivo un profondo rispetto in quel dialogo 'alla pari'.
Eppure, più ci penso e più mi accorgo che non si trattava tanto di ciò che veniva detto, ma di ciò che intuivo, ovvero del 'calore' che sentivo nelle parole, della tenerezza degli sguardi, della decisione pacata con cui un pensiero, un vissuto veniva espresso. Sento che è soprattutto questa dimensione che crea il calore che contraddistingue certi incontri e certi abbracci.

Lavorando con gli adolescenti, ma anche con gli adulti, mi accorgo di quanto questo 'precoce' allenamento al dialogo emotivo, al confronto consapevole con il proprio sentire, sia una risorsa preziosa per muoversi nel mondo ed, a maggior ragione, per muoversi verso l'altro.
In passato mi è capitato di assistere ad un intervento di mediazione con una coppia di coniugi. Immancabilmente nel momento in cui la moglie esprimeva la sua sofferenza di fronte ad un atteggiamento del marito, lui sorrideva, la guardava e poi le faceva una domanda che nulla aveva a che fare con le emozioni, i vissuti espressi in quel momento particolare dalla signora. Di fronte a questo atteggiamento così difensivo, ho potuto toccare con mano l'estremo analfabetismo emotivo di quell'uomo, che non riusciva ad ascoltare ed a cogliere il vissuto della moglie e che in maniera goffa ed infantile cercava di uscire da quella situazione per lui faticosa e confusa. "Non ci so stare con il dolore di mia moglie, sentire il suo dolore è straziante ed inutile e preferisco evitarlo" - aveva poi dichiarato lui in un colloquio individuale. Questa espressione mi aveva fatto pensare ad un 'abbraccio freddo', di quelli che, pur avvolgendoti, non ti riscaldano e non ti fanno sentire vicino a qualcuno, ma solo cinto da qualcuno, che non riesce a sentirti.

Mi chiedo quante siano le persone che portano in sè questa fatica, che di fronte all'emozione altrui 'svicolano', 'glissano' in modo più o meno elegante, che si difendono così rigidamente dal sentire altrui e dal proprio, perchè non sono stati abituati a sentire ed a sentirsi. E considero quanto sia importante saper accogliere queste loro difficoltà, per aiutarli in un percorso di recupero del contatto con se stesse.

Infine mi chiedo che genitori riusciranno ad essere quelle persone, che sono inconsapevoli della propria alienazione? Che capacità avranno di aiutare i loro figli a non perdere di vista la ricchezza della loro vita emotiva? Come verranno accolte le emozioni dei loro bambini? Come faranno quei bambini ad imparare a riconoscerle ed a riempirle di significato?
Forse non resta che sperare che ai bambini arrivino vari tipi di abbracci, da persone diverse e che in questo carnevale di intimità più o meno emotive, queste ultime siano numerose, anche se discontinue.

venerdì 3 giugno 2011

nel verde e nel silenzio



Sento quanto sia importante per me ritagliare spazi di quiete e di ritrovo di me stessa, immergendomi nel verde e nel silenzio. Forse è questo contatto con la natura che mi rende più facile tornare a me, sentire l'armonia della mia esistenza e dello scorrere della vita.

Passeggiare nella campagna, spazzolare un cavallo, giocare con un cane, stare soli nel silenzio..l'assaporare tutto questo, mi accorgo, mi riporta a me, alla naturalità delle sensazioni e delle emozioni, a quel livello di mentalizzazione sufficiente e non abusata, non difensiva, non contorta, ma funzionale.
Immersa nella natura sento il mio corpo, lo sento di più, sento i muscoli tendersi durante una salita, il bruciore dello stomaco per la fame, i rumori dei piedi nelle scarpe, il peso dei capelli, il sudore sulla nuca. Tutto questo lo sento di più, ci faccio più attenzione, mi dedico più attenzione.

Credo che ci siano tanti tipi di solitudine, c'è chi li descrive come livelli diversi, dati dalla fuga dagli altri, dalla fuga dalla realtà, dall'incapacità di giocarsi nella relazione e dal bisogno di tornare a sè, al proprio sentirsi e conoscersi.
Sento che è quest'ultima solitudine che cerco nel verde della collina, mentre guardo il panorama e senza fatica rifletto sulle direzioni in cui mi muovo, sul lavoro che faccio, sulle cose che imparo e tutto questo è accompagnato dalla quiete e dal sole. Ricordo quel brano del romanzo di Susanna Tamaro, 'Va' dove ti porta il cuore', in cui la protagonista si siede ai piedi di un albero, le formiche si arrampicano su di lei, che resta immibile, con gli occhi chiusi, immersa in una meditazione solitaria, eppure così in simbiosi con la natura che le sta intorno......sento che anche quella era una solitudine accompagnata, in cui il silenzio..era pieno di movimento.

... e poi mi viene da pensare a chi non è abituato a prendersi questi spazi, a chi non è in grado di farlo, a chi fugge solitudine e silenzio, mi chiedo che succeda loro quando ci si trovano....quali rumori e sensazioni affiorino dentro di loro, quale fatica sentano alcuni di loro nel semplice 'stare' con queste parti della loro natura, del loro essere, del loro sè.
Qualcuno ha detto che ci sono parti di noi destinate a restarci oscure, inconoscibili... personalmente credo che semplicemente se continuiamo a pensarla in questo modo....non le conosceremo mai, nè mai le accetteremo nè le legittimeremo.
Che il silenzio, quando riusciamo a tollerarlo con la giusta dose di piacere, non sia davvero una ricetta contro l'alienazione da noi stessi?
Penso che per coloro che lo vivono come minaccioso, essere accompagnati da qualcuno anche nel silenzio potrebbe rappresentare un passo importante verso il contatto con se stessi e con il proprio movimento interiore.
..e la relazione, pur nel silenzio, è ancora una volta la cura!

giovedì 20 gennaio 2011

Se non coltiviamo l’impotenza...

Sto familiarizzando da alcuni anni con un concetto di salute diverso da quello che conoscevo, che mi era stato insegnato. Se già nel 1986 la Carta di Ottawa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sottolineava una nuova visione della salute e della sua promozione, devo ammettere che solo negli ultimi anni sono riuscita a ‘digerire’ ed a rendere mio questo apprendimento. Sembra davvero che l’esperienza personale e lavorativa, più della teoria, mi abbia aiutato a capire fino in fondo cosa sia la salute, su quali equilibri delicati si muovano le nostre scelte, quelle che diciamo di fare per il nostro bene, perchè ci ‘fanno stare bene’.

Da qualche tempo collaboro con un Centro Regionale, che si occupa di Prevenzione e Promozione della Salute. Quando le classi di studenti delle scuole primarie e secondarie si siedono nelle aule del Centro e guardano me ed i miei colleghi, nell'attesa di una lezione frontale in cui si aspettano che venga spiegato loro cosa è giusto e cosa è sbagliato, mi ricordo della grossa confusione che io avevo in merito, quando avevo la loro età e desideravo spesso e volentieri essere guidata ed affidarmi a qualcuno che mi desse le risposte giuste. Oggi so che non ce ne sono, che non c’è un giusto nè uno sbagliato che esistono in modo assoluto ed astratto, so che esiste il mio relazionarmi ad una certa situazione ed il mio sentire rispetto ad essa, il valore che io le attribuisco e la scelta che farò in merito, spero davvero la più giusta per me.
L’approccio del Centro spiazza i ragazzi, generalmente in modo positivo, nel momento in cui noi operatori proponiamo loro di mettersi in gioco, di dirci loro cosa sanno, cosa hanno visto, cosa pensano. Molti restano a lungo in silenzio, sembrano più che imbarazzati, proprio disabituati a prendere l’iniziativa, o meglio, a vedersi riconosciuto il diritto di prenderla e quando si parla di stili di vita, è difficile non parlare di scelte ed iniziative personali, consapevoli, responsabili.
Come mai è difficile lavorare sul tema della Prevenzione? Come mai è difficile trasmettere alle persone, giovani o mature che siano, la consapevolezza che possono davvero avere un ruolo determinante sul loro star bene, non solo di oggi ma anche del futuro? Come mai il più delle volte si finisce con il non bere alcol per paura che la sera stessa venga ritirata la patente e non per la consapevolezza che sia una sostanza che comporta dei rischi per il nostro organismo, che incide profondamente sul nostro modo di stare con gli altri e con noi stessi? Come mai non capita di pensare come un gesto quotidiano come mettere due cucchiaini di zucchero nel caffè porti, a fine anno, ad avere assunto più di un barile di zucchero, in una società divorata da malattie come il diabete o il cancro, che sono correlate alla modalità d’assunzione di questo alimento? Come mai l’essere sovrappeso o addirittura l’obesità sono tendenze in aumento nel nostro paese quando, specie quest’ultima, è correlata ad una elevata quantità di patologie, da quelle cardiocircolatorie a quelle oncologiche?

La mia sensazione è che sia difficile dirsi che sta a noi pensare alla nostra salute, forse perchè non siamo stati troppo abituati a farlo. Da anni ci sono esperti professionisti riconosciuti, con numerosi diplomi appesi alle pareti dei loro studi. È quasi facile affidarsi a loro quando si è malati, ma essi non possono intervenire là dove iniziano i problemi, là dove siamo noi a scegliere per noi stessi, spesso senza rendercene nemmeno conto, o facendoci consigliare o seguendo la scia lasciata dagli altri.
Questa condizione, che non considero esclusivamente correlata al periodo adolescenziale, ma che sento piuttosto diffusa tra amici, coetanei, colleghi, mi richiama alla mente un concetto che mi spaventa profondamente, quello dell’impotenza acquisita di Seligman e Maier. Si tratta della certezza di essere impotenti rispetto al proprio benessere ed alla propria salute, quella certezza di non avere il controllo sulla propria salute e quindi, di non esserne i primi responsabili. L’impotenza acquisita non è generalmente qualcosa di consapevole, viene piuttosto percepita dalla persona come una dato di fatto, è connessa ad un atteggiamento passivo verso i fatti della vita, di fronte ai quali l’individuo non confida di poter modificare l’andamento delle cose con le proprie azioni e riconosce ai fattori esterni il principale ruolo nel controllare e determinare gli esiti di una certa situazione. Voglio farne qui un esempio: con i ragazzi delle scuole medie mi capita spesso di utilizzare il gioco di ruolo, che è uno strumento in grado di attivare reazioni emotive profonde e di rendere attuali i conflitti che sono in gioco in determinate situazioni. Parlando di alcol ad esempio, propongo ai ragazzi d’inscenare una situazione tipo, in cui un ragazzo, che aveva promesso ai genitori di non bere alcolici, guadagnando così la loro fiducia, una volta raggiunto il gruppo di amici, fatichi a tener fede alla promessa fatta. Durante la fase delle considerazioni in merito alla scena rappresentata mi ha colpito molto che, nella maggior parte dei casi, siano gli amici ed i genitori del ragazzo ad essere ritenuti responsabili della sua condotta, i primi, perchè l’hanno tentato, insistendo e deridendolo, quasi ‘costringendolo’ a bere, i secondi perchè l’hanno lasciato uscire di casa e perchè si sono fidati di lui. Il ragazzo è quasi sempre visto come la vittima impotente.

Questa visione delle cose mi lascia perplessa e mi riporta a questo mio tema della salute, a quel concetto così variegato e così difficile ancora per molti da collegare, non semplicemente all’assenza di malattia, ma ad una dimensione di equilibrio e di benessere percepito che, oltre ad essere fisico, sia anche psicologico, relazionale e, perchè no, spirituale. Credo che molto spesso le ultime tre dimensioni, di certo le ultime due, siano poco considerate, che non siano abbastanza consapevoli il più delle volte. Dal momento che se un bisogno, una forza motrice qualunque non è consapevole....beh allora....generalmente è fuori controllo, agisce da sola ed il delicato equilibrio si perde, penso che sia impensabile perseguire la propria salute laddove se ne ignorino le componenti.

Attraverso questa esperienza lavorativa, mi sto rendendo conto di quanto ci sia bisogno di facilitare la consapevolezza dei bisogni e delle necessità e di favorire l’apprendimento di come le varie sfaccettature della salute siano estremamente collegate tra loro. Promuovere la salute per me significa proprio questo, consentire ad ogni persona di esercitare un maggior controllo sulla propria salute e rinforzare la sua fiducia nel poterla migliorare.
Sono convinta che laddove l’individuo si riconosca capace di influire in modo determinante sul proprio corpo, sul proprio ambiente, sulle relazioni e sulla società, egli potrà attingere in modo consapevole alle proprie risorse personali e perseguire in modo funzionale il proprio benessere. Tuttavia se manca questa consapevolezza, egli rischia di dipendere completamente dagli altri, esperti o non esperti che siano, nella sua relazione con il proprio organismo, nel rapporto con gli altri e con se stesso, scordandosi così delle proprie risorse, delle proprie competenze e disimparando l’ascolto di sè, senza forse nemmeno rendersene conto.
Questa possibilità è davvero avvilente.