"Quando un albero è ferito, cresce attorno a quella ferita" Peter A. Levine

domenica 19 settembre 2010

il senso del lavoro sulla relazione in carcere

Ho iniziato ad occuparmi di gruppi in seguito ad una richiesta della Direzione della Casa Circondariale della mia città. Lavoravo in carcere già da qualche anno, occupandomi di orientamento dei detenuti ai Servizi del territorio reggiano e, da pochi mesi, avevo iniziato l’attività di psicologa per l’AUSL, occupandomi di accoglienza dei detenuti nuovi giunti e di percorsi individuali di accompagnamento e sostegno alla detenzione.
La richiesta fattami prevedeva di stendere un progetto d’intervento di gruppo, consistente in incontri almeno quindicinali con una ventina di persone detenute, recluse entro il reparto dei ‘protetti-differenziati’.
Ero a digiuno di psicologia di gruppo; non potevo basarmi su una vasta esperienza professionale, se non qualche docenza che avevo tenuto nella scuola media-superiore ed universitaria e che non era certo riconducibile ad un intervento di tipo clinico, ma esclusivamente formativo. Così mi chiedevo cosa avrei fatto io con un gruppo del genere, come si poteva lavorare con simili persone.
Presa dal desiderio di fare del mio meglio, avevo cominciato a raccogliere e leggere diverso materiale sugli interventi con i gruppi, inoltre avevo cercato della documentazione sull’intervento specifico con questa tipologia di detenuti, che reputavo fondamentale conoscere per poter creare un progetto su misura. Ero sicura che se mi fossi creata una conoscenza approfondita sugli studi criminologici realizzati su questa particolare popolazione di offender, avrei potuto strutturare degli incontri su misura per loro, riuscendo a prevederne contenuti, risvolti e caratteristiche di processo.
E così ho raccolto un bel bagaglio di nozioni: con il termine protetti-differenziati s’intendono quei detenuti che non possono vivere nelle sezioni comuni, perché hanno tenuto comportamenti contrari all’etica della maggioranza della popolazione detenuta (compiere reati di natura sessuale, in special modo la pedofilia, o collaborare con la giustizia). Sono quindi riuniti in apposite sezioni e, per restare “differenziati” dagli altri, non hanno contatti con il resto della popolazione detenuta, essi vivono, mangiano e vanno all’aria sempre e solo tra di loro.
Mi sentivo stimolata dalla sfida, ma allo stesso tempo un po’ spaventata e perplessa, mi chiedevo come avrebbero reagito quegli uomini, reclusi per reati così faticosi persino da immaginare, come avrebbero accolto l’iniziativa e che uso ne avrebbero fatto. Le nozioni apprese su questa particolare popolazione mi avevano inquietato non poco, mi chiedevo come si poteva gestire un gruppo simile, come contenerlo, limitarlo nelle tematiche che sentivo faticose soprattutto per me.
Dentro di me sentivo che realizzare degli incontri con i protetti, per consentire il confronto in un ambiente ‘protetto’, poteva essere un’azione importante, umana e potenzialmente terapeutica, ma allo stesso tempo pensavo a quello che avevo visto succedere alle persone in carcere e non ero certa che questi detenuti avrebbero partecipato.
Ad oggi la detenzione è intesa come semplice privazione della libertà, che non rimanda esclusivamente ad aspetti fisici, ma costituisce di fatto l’impossibilità per l’uomo detenuto di continuare ad esistere come attore sociale, relazionato al sistema ed all’ambiente di cui è parte. L’individuo ristretto, pur restando padre, marito, fratello, è costretto ad abdicare ai ruoli che riveste nella vita libera e, d’altro canto a questa spoliazione dei suoi ruoli si accompagna un’esperienza carceraria in cui tutto, dai tempi di colloquio, alle figure con cui egli si relaziona, riconduce costantemente ad un unico ruolo, quello del delinquente. Tale ruolo con i suoi significati rischia di espandersi, sottraendo spazio ad altre sfere e sfumature che costituiscono l’identità del singolo individuo, come se la detenzione facilitasse una definizione degli indicatori dell’identità in negativo, eliminando progressivamente punti di vista alternativi.
Nel mio lavoro con le persone detenute da sempre quello che mi colpisce di più è il loro ritiro e l’intensità del vissuto di disagio. La persona reclusa si trova in un costante stato di difesa e di diffidenza, privato di una parte dei suoi diritti ed alla mercè di una convivenza forzata il detenuto si difende costantemente e non si fida di nessuno. La brutalità della vita reclusa è fatta di tanti particolari che rimandano a milioni di maschere, utilizzate per fare buon viso a cattivo gioco, per proteggersi da minacce sempre in agguato che colorano spazio e tempo di toni cupi e malinconici e di relazioni generalmente povere e superficiali, oppure intense, ma unidirezionali.
Il leit motiv che lega le diverse fasi di una carcerazione (arresto, fermo, convalida, detenzione) è il processo di depersonalizzazione. Il detenuto non viene solo privato della libertà fisica; egli viene registrato con un numero, non sente quasi più pronunciare il suo nome di battesimo e viene spogliato dei suoi oggetti personali al momento dell’ingresso in Istituto, fede nuziale, orologio, orecchini, collane, fotografie...tutto viene depositato in una busta e conservato in magazzino, sino a nuova disposizione.
Durante la detenzione l’autonomia decisionale dell’individuo è ridimensionata, egli non ha più il controllo dei propri spostamenti, deve rispettare gli orari, seguire le indicazioni degli operatori di polizia penitenziaria e rimettersi alle decisioni del Magistrato, che può stabilire un trasferimento. Alla rigidità di movimento segue di pari passo la rigidità normativa, gerarchica ed organizzativa. Il clima di potere autocratico, che caratterizza la vita detentiva, facilita un processo regressivo di detenuti ed operatori, che tarano la loro quotidianità sul fare richieste e sull’attesa di una risposta. Le paure più primitive, risvegliate dalla depersonalizzazione e dalla convivenza forzata, vengono utilizzate per mantenere il controllo, facendo promesse e concessioni, al fine di mantenere il potere autocratico per controllare il detenuto. Le forti pressioni esercitate sui detenuti creano un clima di diffidenza diffusa, ognuno è potenzialmente un nemico per gli altri ed il potere individuale risulta indebolito, vista la quasi totale assenza di cooperazione.
Ogni azione è normata da un regolamento, dipende da un permesso, quasi nulla dipende dal singolo. Si verifica una progressiva riduzione delle situazioni nelle quali egli possa sperimentarsi nella presa di decisione e nella conseguente assunzione di responsabilità. Le scelte, i bisogni ed i desideri del detenuto dipendono da chi ha la facoltà di decidere, al punto che con il passare del tempo la deresponsabilizzazione e la dipendenza dalle decisioni dell’altro diventano parte di uno stile di vita e talvolta il detenuto smette di chiedere, chiudendosi nell’attesa del fine pena. Per molti detenuti l’attesa riempie inesorabilmente ogni pertugio, ogni frammento di tempo e ogni pensiero, spesso in questa condizione fare qualunque cosa perde di significato, e si rinuncia a qualunque forma di attivazione soggettiva, sviluppando abulia ed anedonia.
Durante la detenzione il detenuto non è mai solo, mai lontano dallo sguardo altrui e la convivenza non è scelta, ma imposta. Per questo, nonostante le persone siano generalmente in gruppo, la distanza che si percepisce tra loro è immensa; vige la regola non scritta dell’evitamento dei discorsi e delle domande sulla vita personale, sugli affetti, sulla sofferenza. I temi più affrontati sono quelli del comportamento criminale, dei reati, passati...a volte futuri, si parla di processi, di udienze, di appelli, di avvocati, di leggi...sembra quasi di sentirlo questo rumore omogeneo di sottofondo che annulla, nasconde, protegge tutto il resto. In carcere c’è anche chi sceglie di sottrarsi al rumore delle chiacchiere e di sfruttare altri lenitivi, quali sono i farmaci, gli psicofarmaci, che svolgono un’importante funzione preventiva e trattamentale, ma che spesso vengono assunti per ottenere un effetto esclusivamente sedativo ed alienante. Ci sono poi alcune persone che riescono a resistere alla spinta all’inattività, coltivando passioni ed hobby personali, come la lettura, il disegno e che sviluppano forme di creatività impensata, come costruire dal nulla un forno con la carta stagnola per cuocere la pizza o piccole sculture assemblando oggetti di scarto.
A livello interpersonale, l’alienazione del detenuto assume forme diverse. Essa porta a falsare ogni relazione, da quella con i familiari a colloquio, che incontrano il detenuto sorridente, che racconta di star bene e spesso cerca di far sorridere i figli e la moglie, a quella con gli operatori ai quali il ristretto cerca di mostrare, nella maggior parte dei casi, il suo lato migliore, spesso alla ricerca di quella relazione ‘alla pari’, che in carcere non è scontata, quanto preclusa da ruoli e peculiarità personali.
Alla luce di quanto detto non è difficile credere che la popolazione detenuta sia particolarmente esposta a crisi depressive, che possono sfociare in atti di violenza, laddove non vi siano gli spazi per portare ed elaborare i propri vissuti emotivi. Ciò si verifica con maggior frequenza in quelle persone con pochi strumenti, disabituate all’inattività fisica ed alla gestione di emozioni e pensiero. Durante la detenzione, l’attività cognitiva diviene spesso quella dominante, le idee sono spesso ripetitive, persistenti, invadenti, ossessive e molto faticose. Per quei detenuti più fragili e meno abituati a questa ‘predominanza cognitiva’, è frequente la messa in atto di agiti auto ed etero-lesivi, come autolesionismo, tentativi di suicidio e suicidio, sciopero della fame, aggressioni verbali e fisiche, che rimandano ad un’elaborazione faticosa o quasi essente dell’esperienza detentiva in corso e del vissuto emotivo che l’accompagna. La condizione d’isolamento affettivo in cui si trovano i detenuti finisce con l’indebolire le loro risorse personali. Molti di loro spesso finiscono con il rinunciare al contatto con i propri sentimenti, con le proprie emozioni e con se stessi; progressiva e lenta si struttura la perdita della consapevolezza del proprio valore.
Questa condizione, definita ‘ibernazione penitenziaria’, descrive un percorso detentivo, al termine del quale si ritiene che questi individui vengano ‘restituiti’ alla società ancora con tutte le proprie caratteristiche ‘antisociali’, semplicemente come se fossero stati scongelati ed allo stesso tempo fossero aridi di umanità e con in più una forte dose di rancore, anche conseguente alle condizioni detentive. A questo proposito ricordo il racconto di un giovane detenuto albanese, il quale dopo la sua prima esperienza detentiva, era rimasto ‘recluso’ volontariamente nella sua stanza per due mesi, a causa della rabbia che si sentiva addosso e che inevitabilmente gettava contro chiunque lo avvicinasse. Smaltire questo vissuto, proprio di un’animale ferito, aveva richiesto tempo e parecchio autocontrollo, ed aveva causato una profonda sofferenza personale. Mi chiedo quanti siano in grado di riconoscere il rischio della rabbia e dell’aggressività assorbite durante un’esperienza come quella detentiva e quanti riescano ad auto-contenersi ed a trovare il modo di elaborarla o quantomeno gestirla.
L’Art.1, comma 2, del Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n.230, ovvero del Regolamento recante norme sull'Ordinamento Penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, recita: “Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale”.
Alla luce della mia formazione all’Approccio Centrato sulla Persona, la ricetta per questo mandato mi appare sin troppo evidente. La relazione facilitante consente il recupero del contatto con il proprio sè autentico, con il proprio sentire, grazie ad un clima di accettazione positiva incondizionata ed empatia che favorisca l’auto-svelamento. L’io si consolida nel contatto con il tu, verso il quale è proteso sin dalla nascita e, attraverso questo scambio, l’individuo impara a riconoscere il proprio io, pervenendo così ad una separazione naturale.
La relazione può così funzionare come un tirocinio o una palestra, in cui l’individuo si riappropria del contatto con la propria esperienza attuale, i propri vissuti emotivi e la propria percezione. È questo contatto, questa auto-comprensione che secondo Rogers innesca il cambiamento, proprio secondo l’assunto per cui, nel momento in cui si diviene consapevoli del proprio vissuto e si accetta questo sentire, si è già cambiati. Contattando i propri sentimenti e le proprie emozioni attraverso il feedback dell’altro, l’individuo può confrontarsi sempre più profondamente con essi, viverli senza temerli, accettarli come propri e può quindi giungere a valutare razionalmente la problematica in questione e risolverla.
Secondo l’Ordinamento Penitenziario, il trattamento del detenuto implica la creazione di spazi, attività e servizi specifici, atti a stimolare il cambiamento, inteso come crescita della persona. Nell’ambito di questo intervento si collocano il lavoro, la scuola, i corsi di formazione, l’attività sportiva ed i colloqui con gli addetti al trattamento.
Da questo punto di vista mi sento di dire che, oltre alle attività concrete previste, l’Ordinamento stesso riconosca l’importanza della relazione come strumento di cambiamento e m’interrogo sui grandi numeri degli ultimi anni, sul sovraffollamento e sul budget orario del personale addetto al trattamento e, come è già avvenuto nella storia del trattamento psicologico, è a questo punto che mi viene da pensare al risparmio di tempo, energie e personale di cui si godrebbe, se fosse possibile organizzare interventi di gruppo sistematici entro gli Istituti Penitenziari.
Entro una realtà in cui le emozioni dominanti sono rabbia, vergogna, solitudine, tristezza, disperazione ed in cui si abusa di distacco affettivo ed emotivo, di scissione da ciò che fa male, di razionalizzazione, di proiezione, di fantasticazione e di agiti, non riesco a fare a meno di cogliere l’efficacia potenziale di un intervento di gruppo.
Una volta Rogers ha scritto che la ‘fortuna’ del lavoro con i gruppi nel corso degli anni si doveva attribuire, tra le altre cose, alla “fame di rapporti [...] in cui sentimenti ed emozioni possano essere espressi con spontaneità, senza essere preventivamente censurati o repressi”. Di fronte alla realtà detentiva, per come io l’ho conosciuta non posso che notare l’enormità di questa fame nel mondo penitenziario, al punto che in molti, detenuti ed operatori, sviluppano le forme più diverse e spesso deleterie di allontanamento da questo bisogno frustrato ed insoddisfatto.

giovedì 1 aprile 2010

la saggezza che a volte si perde

Leggendo il saggio di Rogers (1970) sui gruppi d’incontro, sono rimasta sorpresa nel notare come, nel capitolo in cui si affrontano le tematiche della ‘persona sola’ e del vissuto della solitudine, Rogers le ricolleghi all’occultamento del vero sè interiore.
Avendo studiato psicologia presso un’Università in cui veniva dato ampio spazio all’approccio psicodinamico ed essendomi laureata con una tesi in cui ho approfondito i concetti di autenticità e falsità nella teoria psicoanalitica, ho sentito familiare la riflessione di Carl Rogers. Temi, come quello dell’alienazione, dell’uso di una maschera e del Falso sè, mi sono molto cari e risvegliano in me il ricordo di letture fatte durante la mia adolescenza, quando il vissuto d’incertezza identitaria era quotidiano ed angosciante. Ho amato molto i romanzi di Pirandello, caratterizzati da quel continuo interrogarsi sulla natura e sulle possibilità dell’autenticità e dell’essere autentici entro la molteplicità di maschere scelte od imposte dalla quotidianità. Secondo Rogers è la paura che la propria autenticità più profonda non possa essere accolta ed amata a far sì che l’individuo la occulti, vinto dal timore di mostrarsi ed incapace di assumersi questo rischio.
Rogers pone molta attenzione ad esaminare le condizioni facilitanti dello scambio autentico. Delle sue riflessioni porto con me la convinzione che la possibilità di beneficiare di un clima psicologico sicuro nell’incontro clinico agevoli il mostrarsi dell'interlocutore. Da qui immediati si pongono alcuni interrogativi, quali: come si crea un simile spazio? Che ruolo ha l’empatia nel facilitare l’incontro con l’altro? E ancora quanto l’empatia che abbiamo incontrato nelle figure significative della nostra infanzia ci ha permesso di conoscerci per ciò che realmente siamo?

In tenera età il bambino si affida alla “saggezza del corpo (Rogers, 1961, pp. 271)”.
L’infante è assolutamente al centro del proprio sistema di valutazione ed agisce in funzione del mantenimento delle situazioni gratificanti e funzionali e dell’interruzione di quelle che piacevoli non sono. Si fida inconsapevolmente di sè, è un tutt’uno con il proprio sentire, il proprio experiencing, che è preconscio e spontaneo. Questo processo di valutazione preconscia è fluido e mutevole, in costante adattamento ai bisogni ed all’esperienza attuale e non è influenzato da ciò che gli adulti di riferimento possono trovare più o meno conveniente o preferibile.
Crescendo, il bambino sviluppa progressivamente la propria identità all’interno di quella relazione parentale in cui c’è ancora indistinzione tra l'io ed il tu. In tale relazione la figura dell’educatore ha una grande responsabilità, poichè attraverso l’ascolto dei bisogni specifici del bambino e la consapevolezza di quelli da lui soddisfabili, accompagna il piccolo nel suo prenderne progressivamente consapevolezza entro il divenire quotidiano.

La relazione con le figure parentali può intaccare la saggezza originaria, determinando una limitazione e una castrazione della sua funzionalità, proprio insinuandosi attraverso costrutti valutativi del comportamento che, se non adeguatamente integrati dal contatto empatico e dal riconoscimento emotivo, favoriscono l’alienazione del piccolo da quei suoi vissuti emotivi, percepiti come inaccettabili dai genitori; oppure in altri casi il bambino distorce le emozioni provate, trasformandole in qualcosa d’altro.
La rinuncia a al proprio sentire è, secondo Rogers, l’elemento fondante ogni tipo di disturbo, poichè essa si colloca alla base di quella mancata identità tra sè organismico e sè ideale, che caratterizza l’incongruenza dell’individuo, ovvero la sua mancanza di contatto con il proprio sentire.
La capacità del genitore di riconoscere, di accettare il vissuto emotivo del bambino e di rispecchiarglielo attraverso un autentico contatto empatico favorisce nel piccolo una simbolizzazione sempre più completa delle proprie emozioni, che non devono essere così amputate o distorte. Egli impara a stare con i propri affetti e con i propri bisogni, a riconoscerne la dignità, ad ascoltarli nel loro ‘qui ed ora’ ed a gestirli.

Mi capita spesso di riflettere su quanto il recupero del contatto con la propria ‘saggezza’ originaria favorisca una condizione di benessere e ferma tranquillità interiore, che pur si erge su di un processo in costante divenire, che pulsa costantemente e del quale si ha meno timore. La piena consapevolezza di dove ci si trova favorisce il cambiamento, mediante comportamenti funzionali ed efficaci tesi alla propria realizzazione.

Rogers C.R. (1961) On becoming a person. A therapist’s view of psychotherapy, Houghton Mifflin, Boston (trad. it La terapia centrata sul cliente, Martinelli, Firenze, 1970)
Rogers C.R. (1970) On encounter groups, Harper and Row, New York (trad. it. I gruppi d’incontro, Astrolabio, Roma, 1976)

sabato 6 marzo 2010

Orientare all'autonomia consapevole

Di recente ho iniziato ad occuparmi di dispersione scolastica, quel fenomeno che ai tempi di mio padre e di mia madre era dovuto prevalentemente al bisogno economico familiare, che spingeva i genitori a scegliere chi dei loro figli avrebbe ‘potuto’ continuare a studiare dopo la scuola dell’obbligo e chi invece avrebbe ‘dovuto’ contribuire alla formazione del reddito familiare. Esistevano dei ‘devo’ non scritti, che spesso determinavano un investimento della famiglia sulla formazione dei figli più giovani, mentre i primogeniti, a meno che non fossero maschi e particolarmente portati per lo studio, venivano precocemente in contatto con il mondo del lavoro, sostenuti e spronati da un profondo senso di lealtà familiare, che rendeva lo sforzo e la rinuncia personale funzionali alla sopravvivenza del gruppo famiglia.

I ragazzi che incontro hanno generalmente interrotto la scuola superiore dopo alcuni tentativi in Istituti diversi, la resa generalmente si è presentata in seguito ad un progressivo processo di disinvestimento della formazione, accelerato dall’aumento della frustrazione nel confronto con il mondo della scuola, in assenza di una rete familiare solida alle spalle.
Nell’incontro con la maggior parte di questi giovani adulti mi ha colpito il sentimento di solitudine che ho percepito, una solitudine legata ad un senso di responsabilità di sè e del proprio ‘dovere’, come se essi dovessero affrontare tutto da soli, come se non potessero appoggiarsi alla famiglia e godersi gli anni della formazione. L’urgenza è palpabile in questi colloqui. Ho provato a chiedere ad uno di loro perchè fosse per lui così importante trovare un lavoro nell'immediato, tanto da non poter nemmeno prendere in considerazione la possibilità di tornare a studiare almeno per qualche anno, dal momento che la situazione economica familiare era piuttosto stabile; la risposta è stata più o meno questa “Ora ho compiuto i diciotto anni, adesso deve cambiare per forza qualcosa, devo essere più responsabile, devo essere autonomo e lavorare per il mio futuro”. Una risposta piena di ‘devo’, per certi versi irreprensibile, che rimanda ad un ideale d’autonomia molto forte e un pochino ‘contro corrente’, se si tiene conto che da diversi anni la nostra nazione affronta il fenomeno contrario, quello dei così detti eterni ‘ragazzi’, anche conosciuti con l’espressione di ‘bamboccioni’.

Riflettendo su quanto ho scritto, mi sembra di trovarmi di fronte ad una tendenza diversa ma anche familiare, che non riassume in sè tutti i casi d’abbandono scolastico, ma che certamente è rappresentativa di un certo numero di essi e che mi richiama alla memoria un tema molto affrontato dalla letteratura, quello dei riti di passaggio e della loro progressiva evoluzione.
Come si diventa adulti oggi? Come si diventa autonomi se si studia fino a trent’anni e si vive con la famiglia fino al matrimonio? È sposandosi che si diventa adulti? E se non ci si sposa? È vivere da soli che rende adulti? È il lavoro che segna un passaggio certo, sicuro e riconosciuto?
Nell’incontro con questi ragazzi sento il loro bisogno di segnare la fine di una fase, segnarla per dire ‘Sono già oltre’, come se l’incertezza, che caratterizza il periodo adolescenziale, sia diventata intollerabile e ci fosse il bisogno di fermarsi su qualcosa, attaccandovisi per darsi un senso.
Le mie ipotesi derivano anche dall'ascolto dei racconti di questi giovani adulti, con la loro esplorazione delle identità possibili, la scelta di una di esse, una moda, uno stile di vita, generalmente vissuta poi come fallimentare. Il più delle volte ad un iniziale irrigidimento entro una scelta identitaria, che ha travolto ogni aspetto della loro quotidianità, è seguito un suo disinvestimento più o meno rapido, accompagnato dal viscerale bisogno di ancorarsi a qualcosa di solido, perchè restare in mezzo al ‘mare’ delle strade possibili era ed è ancora troppo frustrante.
A questo credo si aggiunga un forte il bisogno di dimostrare competenza a se stessi, servendosi del lavoro come di un mezzo concreto per vedersi riconosciuta un’agognata autonomia ed un’identità spesso molto sfuocata che forse lo sarebbe meno se potesse vantare un lavoro ed un’entrata economica, quasi un modo per dire ‘Io funziono, anche se nella scuola non ce l’ho fatta, nel lavoro ho trovato il mio riscatto’! Da qui viene la grinta che queste giovani donne e questi giovani uomini portano nei colloqui, la speranza e lo sguardo sono concentrati sul futuro, come se fosse recente la scoperta di poter indirizzare il proprio processo senza subirlo. È grande la voglia di tenere le redini con consapevolezza, di sapere dove si vuole andare, di non essere diretti. Tuttavia sempre più spesso, nel conoscere questi giovani adulti, constato che il maggior impedimento per loro è quello della relazione, la relazione con l’altro, piena di potenziali provocazioni ed incomprensioni, vissuta spesso con molta pancia e poca mente, con i fatti più che con le parole. In sostanza il problema a volte per questi ragazzi è quello della tenuta, delle capacità diplomatiche carenti, degli impulsi fuori controllo, dell'aggressività ancora goffamente gestita, che spesso finisce con l’attivare acting di vario tipo (scontro, fuga, ritiro, evitamento..) che di frequente portano all’accumulo di diversi fallimenti scolastici e lavorativi. La consapevolezza del ruolo che questa difficoltà relazionale porta nel perseguimento dei propri obiettivi è scarsa, a volte assente, ancora offuscata da quella visione rigidamente ‘egocentrica’, che impedisce di cogliersi nelle situazioni e di mettersi in discussione.

Per questo penso che la possibilità di fruire di spazi d’incontro protetti, in cui ricostruire la propria storia e riconoscere le proprie competenze e le proprie risorse, sia una condizione importante per facilitare questi ragazzi nell’acquisire una maggior consapevolezza di sè, così da mettere meglio a fuoco i propri bisogni e le diverse sfumature della propria identità.
Dall’incontro con l’altro deriva inevitabilmente una nuova consapevolezza di sè e la possibilità di modificare i propri atteggiamenti, così da renderli più funzionali. Tale crescita permette di giungere alla scelta lavorativa con una più ampia conoscenza delle proprie risorse e dei propri limiti e con maggiori competenze relazionali, lasciando per altro aperta anche la possibilità di un futuro ritorno sui banchi di scuola, magari quella serale. Nei colloqui con queste giovani donne e con questi giovani uomini mi sento efficace quando nell’arco degli incontri riesco a cogliere quel processo d’apertura alle diverse possibilità che rende meno rigidi i ‘devo’ e più visibili i bisogni profondi di ciascun individuo.

giovedì 14 gennaio 2010

... a partire da me!

Parto da me perchè sono convinta che 'contattarsi' e cogliersi in momenti precisi della giornata sia un ottimo esercizio di salute mentale, una specie di..'se so dove mi trovo posso decidere dove andare'. Esercitarmi a ridurre l'alienazione da me stessa è un passatempo a volte faticoso ma estremamente stimolante. E' forse più difficile ricordarsi di farlo che farlo e basta e questo mi fa pensare....penso a tutte quelle volte in cui accumulare impegni e distrazioni sembra il rimedio giusto per superare situazioni difficili, come la perdita di una persona cara, una grossa delusione o anche solo un cambiamento brusco nella vita di tutti i giorni.

Una volta ho visto una maglietta di cotone a maniche lunghe con su scritto 'Never stop the action', una sorta di monito. Crescendo mi sono accorta di come le giornate frenetiche mi stimolassero profondamente. Nella corsa avevo trovato un mio modo di essere ed ero certa che quelle giornate piene d'impegni corrispondessero ad una Vita Piena.

Ora è strano a ripensarci....anzi...mi accorgo che l'essere in tutti quegli impegni corrispondeva spesso più ad un non esserci, ad un non sapere quali emozioni provavo, a volte ad un non essere neppure interessata a distinguerle.

Ci si può allenare a contattarsi, si può partire dall'ascolto attento del proprio corpo e delle sensazioni fisiologiche (freddo, caldo, tremore, agitazione, quiete, tepore..) sino a cogliersi più profondamente ed a definire con una precisione crescente i moti che animano l'umore.

Chiedersi quotidianamente ed in momenti diversi del giorno 'come mi sento?', apparentemente una domanda banale, lo considero un esercizio importante per vivere appieno le proprie giornate e per farlo è necessario trovare il tempo per centrarsi su di sè.

Nel lavoro clinico con l'altro siamo spesso così abituati a centrarci sui clienti, da scordarci che in quella relazione ci siamo anche noi e che il nostro 'esserci' o 'non esserci' agisce su di loro come ogni altro elemento del setting. Sapere 'dove sono' mi consente di cogliere l'altro nella sua posizione, di non farmi travolgere dal suo movimento, ma di accompagnarlo, a mia volta ben consapevole del mio.

Da qui il titolo di questo blog, forse perchè ho la sensazione che nel momento in cui io riesca a contattare maggiormente me stessa, io sia anche più in contatto con ciò che mi circonda, proprio come quando ci si trova a piedi nudi sull'erba e ci si sente avvolti da un confortante senso di armonia e sicurezza.