A volte ci sono quelle giornate in cui mi sveglio e fatico a collocarmi. Guardo la mia vita e osservo i traguardi raggiunti, le soddisfazioni, le sicurezze. Allo stesso tempo sento in me una brama di rischio, di buttarmi in cose e dimensioni nuove, meno certe, a tratti persino pericolose, forse minacciose per alcune delle mie sicurezze.
Eccola lì la bilancia che a tratti si inclina verso la sicura consapevolezza di ciò che sono e a tratti poi pende invece verso la dimensione del possibile, del nuovo, dell'insolito, a momenti minaccioso, in altri decisamente conturbante.
Mi chiedo se queste 'voglie' di nuovo siano davvero minacciose, davvero compromettano il senso di sicurezza, o se semplicemente vadano a modificare potenzialmente gli 'oggetti' della propria sicurezza. Perciò mi chiedo: il senso di sicurezza è strettamente vincolato ad oggetti, prove materiali della stessa (un lavoro, un partner, una casa..) oppure si può pensare che sia qualcosa di meno misurabile e più insito nella natura stessa dell'individuo?
Quanto ci sentiamo sicuri?
Quanto ci sentiamo pronti a non farci imbrigliare da certi 'oggetti di sicurezza'?
Quanto riusciamo a pensare alla sicurezza come ad un processo in continua vestizione piuttosto che come ad un posto prenotato nel solito ristorante o nel solito albergo?
La sicurezza dov'è? Mi libera o mi costringe?
"Quando un albero è ferito, cresce attorno a quella ferita" Peter A. Levine
lunedì 9 aprile 2012
venerdì 6 aprile 2012
I bisogni dell'altro, io, riesco davvero a vederli e legittimarli?
Per circa un anno mi sono occupata di orientamento al lavoro di persone in carico al Servizio si Salute Mentale. Il Progetto, gestito da un Ente di Formazione locale, prevedeva l'affiancamento ed il supporto della persona nella sua ricerca del lavoro. La metodologia utilizzata era sperimentale ed era stata importata dagli Stati Uniti. Si trattava del metodo IPS Individual Placement Support, che si centra sulle risorse della persona, supportandone le autonomie e la motivazione. L'idea è quella di promuovere l'empowerment dell'individuo e la fiducia nelle sue capacità, accompagnandolo in un percorso da lui disegnato e rispettandone le preferenze.
Mi rendo conto che ciò che scrivo sembra scontato, non lo è.
Troppo spesso a mio avviso, quando si tratta di persone in carico ai Servizi di Salute Mentale, il rischio più grosso è credere di aver concordato con la persona un obiettivo, laddove invece l'obiettivo è nostro, del Servizio e la persona, 'assistita' dal Servizio, accetta per 'impotenza appresa', ovvero perchè abituata a considerarsi incapace di fare scelte adeguate per se stessa. Persino quando ti imponi di non decidere per l'altro, in certe situazioni è difficile sottrarsi, anche perchè se l'altro è abituato a disconoscere la propria expertise, sarà più facilmente compiacente sin da subito, disponibile, 'compliante'.
A questo proposito vorrei brevemente raccontare quanto mi è accaduto:
Una delle persone che ho incontrato nell'ambito di questo progetto, era un ragazzo giovane, con una diagnosi di schizofrenia. Inizialmente appariva ritirato ed apatico e piuttosto passivo nella relazione. Nonostante questo sin dall’inizio sono emerse una serie di potenzialità e risorse, nonchè una grande passione per la fotografia.
Sin dall’inizio la sua richiesta al percorso IPS è stata quella di lavorare insieme per migliorare le sue capacità relazionali nell’ambito dei colloqui di lavoro. Infatti lui segnalava che se, prima della malattia, si sentiva sempre a suo agio nell’incontro con gli altri, non era mai a corto di argomenti ed aveva un forte senso dell’umorismo, dopo l’esordio psicopatologico, l’approccio agli altri era diventato via via sempre più faticoso e problematico. Riferiva di passare molto tempo a casa propria, nella propria stanza e di avere pochi amici con cui si sentiva a suo agio.
Il suo desiderio era lavorare nel campo della fotografia.
Nel mio intervento con lui, visto il momento di crisi del lavoro ed il background sanitario di questa persona, ho deciso di puntare ad un’analisi del piano di realtà del mondo del lavoro. Lavorare nell’ambito della fotografia oggi giorno non è facile, bisogna essere molto intraprendenti, piuttosto spigliati ed avere diversi contatti.
Così ho puntato a cercare insieme a lui altri ambiti lavorativi, più funzionali alla sua ricerca, analizzando il suo curriculum scolastico e le sue esperienze professionali.
Lui è stato collaborativo e si è attivato, ha anche preso il patentino da carrellista, per cercare lavoro come magazziniere.
Io ero convinta di lavorare bene con lui, ma regolarmente lui non chiamava i numeri degli annunci, non inviava il suo curriculum oppure rimandava le telefonate… insomma, pur dicendosi motivato, lo appariva poco. Avevo anche provato a spronarlo attivamente, ma mi ero resa subito conto che questa modalità non funzionava, anzi lo portava a farsi ancora più passivo e meno collaborativo nella sua ricerca del lavoro.
Parlando con lui, lentamente ho capito il mio ruolo in tutto questo.
Presa dal mio bisogno di portarlo sul piano di realtà secondo me più percorribile, avevo scordato di legittimare e considerare anche quelli che erano i suoi desideri, gli ambiti del lavoro che appassionavano lui. In questo modo l’intervento che portavo avanti era da lui più subito che sentito come proprio. Lui non ci si riconosceva.
Questa presa di consapevolezza e la condivisione trasparente del mio errore con lui, ha favorito a mio avviso un decisivo cambio di marcia. Il mio legittimare il suo desiderio di lavorare nel mondo della fotografia, lo stargli accanto e supportarlo con fiducia su questo piano, ha contribuito a rinforzare la sua spinta a buttarsi. Poco prima dell’estate aveva così già realizzato un paio di servizi per una rivista, trovata da lui. Portava avanti dei reportage amatoriali con degli amici ed allo stesso tempo ha cominciato a candidarsi ed a fare colloqui per lavori di bollettatore, magazziniere, operaio e grafico. In queste occasioni fissava sempre con me un colloquio precedente per ‘allenarsi’ ai colloqui di lavoro, per arrivarci più sereno e sicuro.
L’alleanza tra noi due è decisamente aumentata nel momento in cui lui si è sentito riconosciuto e promosso in ciò che lui voleva realizzare, non in ciò che io ritenevo meglio e più sicuro per lui. Il fatto che io abbia cominciato a mandargli anche annunci di agenzie, studi fotografici, giornali che cercavano fotografi anche per brevissime collaborazioni o di associazioni no profit che cercavano collaboratori volontari, ha creato un profondo clima di collaborazione e fiducia tra noi due e questo è quanto.
Quanto siamo disposti a lasciare della nostra expertise per riconoscere all'altro la sua, specie quando l'altro ha alle sue spalle o nel suo presente una storia di disagio mentale? Sulla mia pelle ho realizzato quanto stare dalla parte del proprio cliente voglia dire innanzi tutto riconoscere e legittimare il suo bisogno, il suo punto di vista. In seconda battuta può essere efficace confrontarsi con lui sulle oggettive criticità, senza però 'passargli' quello che io penso sia per lui il 'modo' adeguato, l'obiettivo migliore......perchè quest'ultimo continua a restare il mio obiettivo e quindi crea incapacità, passività e dipendenza.
Mi rendo conto che ciò che scrivo sembra scontato, non lo è.
Troppo spesso a mio avviso, quando si tratta di persone in carico ai Servizi di Salute Mentale, il rischio più grosso è credere di aver concordato con la persona un obiettivo, laddove invece l'obiettivo è nostro, del Servizio e la persona, 'assistita' dal Servizio, accetta per 'impotenza appresa', ovvero perchè abituata a considerarsi incapace di fare scelte adeguate per se stessa. Persino quando ti imponi di non decidere per l'altro, in certe situazioni è difficile sottrarsi, anche perchè se l'altro è abituato a disconoscere la propria expertise, sarà più facilmente compiacente sin da subito, disponibile, 'compliante'.
A questo proposito vorrei brevemente raccontare quanto mi è accaduto:
Una delle persone che ho incontrato nell'ambito di questo progetto, era un ragazzo giovane, con una diagnosi di schizofrenia. Inizialmente appariva ritirato ed apatico e piuttosto passivo nella relazione. Nonostante questo sin dall’inizio sono emerse una serie di potenzialità e risorse, nonchè una grande passione per la fotografia.
Sin dall’inizio la sua richiesta al percorso IPS è stata quella di lavorare insieme per migliorare le sue capacità relazionali nell’ambito dei colloqui di lavoro. Infatti lui segnalava che se, prima della malattia, si sentiva sempre a suo agio nell’incontro con gli altri, non era mai a corto di argomenti ed aveva un forte senso dell’umorismo, dopo l’esordio psicopatologico, l’approccio agli altri era diventato via via sempre più faticoso e problematico. Riferiva di passare molto tempo a casa propria, nella propria stanza e di avere pochi amici con cui si sentiva a suo agio.
Il suo desiderio era lavorare nel campo della fotografia.
Nel mio intervento con lui, visto il momento di crisi del lavoro ed il background sanitario di questa persona, ho deciso di puntare ad un’analisi del piano di realtà del mondo del lavoro. Lavorare nell’ambito della fotografia oggi giorno non è facile, bisogna essere molto intraprendenti, piuttosto spigliati ed avere diversi contatti.
Così ho puntato a cercare insieme a lui altri ambiti lavorativi, più funzionali alla sua ricerca, analizzando il suo curriculum scolastico e le sue esperienze professionali.
Lui è stato collaborativo e si è attivato, ha anche preso il patentino da carrellista, per cercare lavoro come magazziniere.
Io ero convinta di lavorare bene con lui, ma regolarmente lui non chiamava i numeri degli annunci, non inviava il suo curriculum oppure rimandava le telefonate… insomma, pur dicendosi motivato, lo appariva poco. Avevo anche provato a spronarlo attivamente, ma mi ero resa subito conto che questa modalità non funzionava, anzi lo portava a farsi ancora più passivo e meno collaborativo nella sua ricerca del lavoro.
Parlando con lui, lentamente ho capito il mio ruolo in tutto questo.
Presa dal mio bisogno di portarlo sul piano di realtà secondo me più percorribile, avevo scordato di legittimare e considerare anche quelli che erano i suoi desideri, gli ambiti del lavoro che appassionavano lui. In questo modo l’intervento che portavo avanti era da lui più subito che sentito come proprio. Lui non ci si riconosceva.
Questa presa di consapevolezza e la condivisione trasparente del mio errore con lui, ha favorito a mio avviso un decisivo cambio di marcia. Il mio legittimare il suo desiderio di lavorare nel mondo della fotografia, lo stargli accanto e supportarlo con fiducia su questo piano, ha contribuito a rinforzare la sua spinta a buttarsi. Poco prima dell’estate aveva così già realizzato un paio di servizi per una rivista, trovata da lui. Portava avanti dei reportage amatoriali con degli amici ed allo stesso tempo ha cominciato a candidarsi ed a fare colloqui per lavori di bollettatore, magazziniere, operaio e grafico. In queste occasioni fissava sempre con me un colloquio precedente per ‘allenarsi’ ai colloqui di lavoro, per arrivarci più sereno e sicuro.
L’alleanza tra noi due è decisamente aumentata nel momento in cui lui si è sentito riconosciuto e promosso in ciò che lui voleva realizzare, non in ciò che io ritenevo meglio e più sicuro per lui. Il fatto che io abbia cominciato a mandargli anche annunci di agenzie, studi fotografici, giornali che cercavano fotografi anche per brevissime collaborazioni o di associazioni no profit che cercavano collaboratori volontari, ha creato un profondo clima di collaborazione e fiducia tra noi due e questo è quanto.
Quanto siamo disposti a lasciare della nostra expertise per riconoscere all'altro la sua, specie quando l'altro ha alle sue spalle o nel suo presente una storia di disagio mentale? Sulla mia pelle ho realizzato quanto stare dalla parte del proprio cliente voglia dire innanzi tutto riconoscere e legittimare il suo bisogno, il suo punto di vista. In seconda battuta può essere efficace confrontarsi con lui sulle oggettive criticità, senza però 'passargli' quello che io penso sia per lui il 'modo' adeguato, l'obiettivo migliore......perchè quest'ultimo continua a restare il mio obiettivo e quindi crea incapacità, passività e dipendenza.
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