"Quando un albero è ferito, cresce attorno a quella ferita" Peter A. Levine
sabato 9 giugno 2012
Vino fa buon sangue: davvero?... alla guida?
Da più di un anno mi occupo di tenere dei corsi info-educativi sul tema 'Alcol e Guida' per persone fermate alla guida in stato di ebbrezza e devo dire che sono moltissime le riflessioni e gli apprendimenti che ho maturato in proposito.
Dal 2011 questi corsi sono obbligatori in Emilia Romagna per tutti coloro che, fermati dalle Forze dell'Ordine, sono stati trovati 'ebbri' alla guida, ovvero con una concentrazione di alcol nel sangue superiore a 0,5 g/l o, in caso di neo-patentati e autisti professionisti, superiore a 0,0 g/l.
Non è facile costruire un buon clima di gruppo con persone che vi partecipano perché obbligate dalla legge. Questo presupposto è sovente una delle cause del 'malumore' generale con cui questi gruppi si aprono. Nell'aria dell'incontro aleggiano rabbia, rancore, vergogna e paura di essere giudicati, che spesso portano i partecipanti a sentirsi vittime di una concatenazione di eventi. E' facile che gli incontri inizino con dei tentativi più o meno decisi di sminuire l'accaduto e/o di attribuirne la responsabilità alle istituzioni, descritte come troppo rigide, interessate solo a ricavare un guadagno, multando gli automobilisti e comunque complici nella pubblicizzazione e nella commercializzazione delle bevande alcoliche. Nonostante queste partenze, spesso faticose, è però interessante vedere come il clima del gruppo poi evolva e come l'incontro delle persone e la condivisone delle loro esperienze, consenta di osservare le varie opinioni con occhi diversi, costruendo insieme una visione più completa e più complessa dell'argomento.
Uno dei temi faticosi di questi incontri è il rapporto con l'alcol.
Essere inviati dall'Autorità Giudiziaria a partecipare ad un corso info-educativo sull'alcol, è da molti partecipanti vissuto come stigmatizzante ed allusivo alla presenza di un problema di alcolismo.
Rispetto a questo, credo che sarebbe interessante approfondire che significhi questo termine, tanto temuto e stigmatizzante, quanto confusivo e poco chiaro al giorno d'oggi. Del resto in presenza di una legge che vieta la guida in stato di ebbrezza con l'obiettivo di 'creare' strade più sicure, è difficile escludere a priori che colui o colei che supera tal limite non abbia perso, almeno in parte, il controllo su un proprio comportamento... aspetto questo altamente correlabile ad una condizione di 'dipendenza'.
Mi chiedo inoltre quanto un limite di alcolemia di 0,5 g/l risulti aleatorio, crei confusione rispetto a cosa significhi 'bere il giusto', espressione questa che trovo oltremodo fuorviante e pericolosa..... laddove il concetto di 'giusto' cambia costantemente in relazione a colei o a colui che lo formula e, parlando di alcolemia, l'andamento di questo valore cambia non solo in rapporto alla quantità di alcol ingerita, ma anche alle caratteristiche fisiche e psichiche del consumatore.
Pensando a strade e ad auto, è innegabile che 'guidare' comporti grandi poteri: velocità, forza, anche distruzione... basti fare attenzione allo spropositato numero di animali, che giacciono ai lati delle strade .. senza vita e agli incidenti stradali che sono nel nostro paese la seconda causa di morte...la prima tra le fasce più giovani. Come viene detto nel film dell'uomo ragno: "Da un grande potere derivano grandi responsabilità", ed è naturale chiedersi cosa impedisca talvolta alla persona di farsene carico.
Quando si parla di alcol è poi inevitabile imbattersi in un mare di contraddizioni. Basti pensare al detto 'vino fa buon sangue', che nulla ha a che vedere con la tossicità innegabile della molecola alcolica, che è rintracciabile nella birra così come nei prodotti per pulire vetri e pavimenti.
Eppure ancora oggi alcuni medici 'prescrivono' un bicchiere di vino al giorno, dicendo che 'fa bene'. Non si può negare che nella soluzione liquida del vino siano presenti ANCHE sostanze che, individualmente possono essere funzionali all'organismo, ma che nella bevanda alcolica sono comunque mescolate con molecole di alcol. Ai miei occhi sarebbe un po' come dire che un bicchiere di acqua, sostanza necessaria e benefica per la vita e la sopravvivenza, con dentro 5 o 6 gocce di detersivo per i piatti, faccia bene. Chi sarebbe pronto a sottoscriverlo? Chi sarebbe desideroso di bere quel bicchiere, anche ammesso che il sapore fosse gradevole?
E allora perché tanta fatica a riconoscere questa verità scientifica persino da parte di alcune figure sanitarie?
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lunedì 9 aprile 2012
Equilibri del volere..
A volte ci sono quelle giornate in cui mi sveglio e fatico a collocarmi. Guardo la mia vita e osservo i traguardi raggiunti, le soddisfazioni, le sicurezze. Allo stesso tempo sento in me una brama di rischio, di buttarmi in cose e dimensioni nuove, meno certe, a tratti persino pericolose, forse minacciose per alcune delle mie sicurezze.
Eccola lì la bilancia che a tratti si inclina verso la sicura consapevolezza di ciò che sono e a tratti poi pende invece verso la dimensione del possibile, del nuovo, dell'insolito, a momenti minaccioso, in altri decisamente conturbante.
Mi chiedo se queste 'voglie' di nuovo siano davvero minacciose, davvero compromettano il senso di sicurezza, o se semplicemente vadano a modificare potenzialmente gli 'oggetti' della propria sicurezza. Perciò mi chiedo: il senso di sicurezza è strettamente vincolato ad oggetti, prove materiali della stessa (un lavoro, un partner, una casa..) oppure si può pensare che sia qualcosa di meno misurabile e più insito nella natura stessa dell'individuo?
Quanto ci sentiamo sicuri?
Quanto ci sentiamo pronti a non farci imbrigliare da certi 'oggetti di sicurezza'?
Quanto riusciamo a pensare alla sicurezza come ad un processo in continua vestizione piuttosto che come ad un posto prenotato nel solito ristorante o nel solito albergo?
La sicurezza dov'è? Mi libera o mi costringe?
Eccola lì la bilancia che a tratti si inclina verso la sicura consapevolezza di ciò che sono e a tratti poi pende invece verso la dimensione del possibile, del nuovo, dell'insolito, a momenti minaccioso, in altri decisamente conturbante.
Mi chiedo se queste 'voglie' di nuovo siano davvero minacciose, davvero compromettano il senso di sicurezza, o se semplicemente vadano a modificare potenzialmente gli 'oggetti' della propria sicurezza. Perciò mi chiedo: il senso di sicurezza è strettamente vincolato ad oggetti, prove materiali della stessa (un lavoro, un partner, una casa..) oppure si può pensare che sia qualcosa di meno misurabile e più insito nella natura stessa dell'individuo?
Quanto ci sentiamo sicuri?
Quanto ci sentiamo pronti a non farci imbrigliare da certi 'oggetti di sicurezza'?
Quanto riusciamo a pensare alla sicurezza come ad un processo in continua vestizione piuttosto che come ad un posto prenotato nel solito ristorante o nel solito albergo?
La sicurezza dov'è? Mi libera o mi costringe?
venerdì 6 aprile 2012
I bisogni dell'altro, io, riesco davvero a vederli e legittimarli?
Per circa un anno mi sono occupata di orientamento al lavoro di persone in carico al Servizio si Salute Mentale. Il Progetto, gestito da un Ente di Formazione locale, prevedeva l'affiancamento ed il supporto della persona nella sua ricerca del lavoro. La metodologia utilizzata era sperimentale ed era stata importata dagli Stati Uniti. Si trattava del metodo IPS Individual Placement Support, che si centra sulle risorse della persona, supportandone le autonomie e la motivazione. L'idea è quella di promuovere l'empowerment dell'individuo e la fiducia nelle sue capacità, accompagnandolo in un percorso da lui disegnato e rispettandone le preferenze.
Mi rendo conto che ciò che scrivo sembra scontato, non lo è.
Troppo spesso a mio avviso, quando si tratta di persone in carico ai Servizi di Salute Mentale, il rischio più grosso è credere di aver concordato con la persona un obiettivo, laddove invece l'obiettivo è nostro, del Servizio e la persona, 'assistita' dal Servizio, accetta per 'impotenza appresa', ovvero perchè abituata a considerarsi incapace di fare scelte adeguate per se stessa. Persino quando ti imponi di non decidere per l'altro, in certe situazioni è difficile sottrarsi, anche perchè se l'altro è abituato a disconoscere la propria expertise, sarà più facilmente compiacente sin da subito, disponibile, 'compliante'.
A questo proposito vorrei brevemente raccontare quanto mi è accaduto:
Una delle persone che ho incontrato nell'ambito di questo progetto, era un ragazzo giovane, con una diagnosi di schizofrenia. Inizialmente appariva ritirato ed apatico e piuttosto passivo nella relazione. Nonostante questo sin dall’inizio sono emerse una serie di potenzialità e risorse, nonchè una grande passione per la fotografia.
Sin dall’inizio la sua richiesta al percorso IPS è stata quella di lavorare insieme per migliorare le sue capacità relazionali nell’ambito dei colloqui di lavoro. Infatti lui segnalava che se, prima della malattia, si sentiva sempre a suo agio nell’incontro con gli altri, non era mai a corto di argomenti ed aveva un forte senso dell’umorismo, dopo l’esordio psicopatologico, l’approccio agli altri era diventato via via sempre più faticoso e problematico. Riferiva di passare molto tempo a casa propria, nella propria stanza e di avere pochi amici con cui si sentiva a suo agio.
Il suo desiderio era lavorare nel campo della fotografia.
Nel mio intervento con lui, visto il momento di crisi del lavoro ed il background sanitario di questa persona, ho deciso di puntare ad un’analisi del piano di realtà del mondo del lavoro. Lavorare nell’ambito della fotografia oggi giorno non è facile, bisogna essere molto intraprendenti, piuttosto spigliati ed avere diversi contatti.
Così ho puntato a cercare insieme a lui altri ambiti lavorativi, più funzionali alla sua ricerca, analizzando il suo curriculum scolastico e le sue esperienze professionali.
Lui è stato collaborativo e si è attivato, ha anche preso il patentino da carrellista, per cercare lavoro come magazziniere.
Io ero convinta di lavorare bene con lui, ma regolarmente lui non chiamava i numeri degli annunci, non inviava il suo curriculum oppure rimandava le telefonate… insomma, pur dicendosi motivato, lo appariva poco. Avevo anche provato a spronarlo attivamente, ma mi ero resa subito conto che questa modalità non funzionava, anzi lo portava a farsi ancora più passivo e meno collaborativo nella sua ricerca del lavoro.
Parlando con lui, lentamente ho capito il mio ruolo in tutto questo.
Presa dal mio bisogno di portarlo sul piano di realtà secondo me più percorribile, avevo scordato di legittimare e considerare anche quelli che erano i suoi desideri, gli ambiti del lavoro che appassionavano lui. In questo modo l’intervento che portavo avanti era da lui più subito che sentito come proprio. Lui non ci si riconosceva.
Questa presa di consapevolezza e la condivisione trasparente del mio errore con lui, ha favorito a mio avviso un decisivo cambio di marcia. Il mio legittimare il suo desiderio di lavorare nel mondo della fotografia, lo stargli accanto e supportarlo con fiducia su questo piano, ha contribuito a rinforzare la sua spinta a buttarsi. Poco prima dell’estate aveva così già realizzato un paio di servizi per una rivista, trovata da lui. Portava avanti dei reportage amatoriali con degli amici ed allo stesso tempo ha cominciato a candidarsi ed a fare colloqui per lavori di bollettatore, magazziniere, operaio e grafico. In queste occasioni fissava sempre con me un colloquio precedente per ‘allenarsi’ ai colloqui di lavoro, per arrivarci più sereno e sicuro.
L’alleanza tra noi due è decisamente aumentata nel momento in cui lui si è sentito riconosciuto e promosso in ciò che lui voleva realizzare, non in ciò che io ritenevo meglio e più sicuro per lui. Il fatto che io abbia cominciato a mandargli anche annunci di agenzie, studi fotografici, giornali che cercavano fotografi anche per brevissime collaborazioni o di associazioni no profit che cercavano collaboratori volontari, ha creato un profondo clima di collaborazione e fiducia tra noi due e questo è quanto.
Quanto siamo disposti a lasciare della nostra expertise per riconoscere all'altro la sua, specie quando l'altro ha alle sue spalle o nel suo presente una storia di disagio mentale? Sulla mia pelle ho realizzato quanto stare dalla parte del proprio cliente voglia dire innanzi tutto riconoscere e legittimare il suo bisogno, il suo punto di vista. In seconda battuta può essere efficace confrontarsi con lui sulle oggettive criticità, senza però 'passargli' quello che io penso sia per lui il 'modo' adeguato, l'obiettivo migliore......perchè quest'ultimo continua a restare il mio obiettivo e quindi crea incapacità, passività e dipendenza.
Mi rendo conto che ciò che scrivo sembra scontato, non lo è.
Troppo spesso a mio avviso, quando si tratta di persone in carico ai Servizi di Salute Mentale, il rischio più grosso è credere di aver concordato con la persona un obiettivo, laddove invece l'obiettivo è nostro, del Servizio e la persona, 'assistita' dal Servizio, accetta per 'impotenza appresa', ovvero perchè abituata a considerarsi incapace di fare scelte adeguate per se stessa. Persino quando ti imponi di non decidere per l'altro, in certe situazioni è difficile sottrarsi, anche perchè se l'altro è abituato a disconoscere la propria expertise, sarà più facilmente compiacente sin da subito, disponibile, 'compliante'.
A questo proposito vorrei brevemente raccontare quanto mi è accaduto:
Una delle persone che ho incontrato nell'ambito di questo progetto, era un ragazzo giovane, con una diagnosi di schizofrenia. Inizialmente appariva ritirato ed apatico e piuttosto passivo nella relazione. Nonostante questo sin dall’inizio sono emerse una serie di potenzialità e risorse, nonchè una grande passione per la fotografia.
Sin dall’inizio la sua richiesta al percorso IPS è stata quella di lavorare insieme per migliorare le sue capacità relazionali nell’ambito dei colloqui di lavoro. Infatti lui segnalava che se, prima della malattia, si sentiva sempre a suo agio nell’incontro con gli altri, non era mai a corto di argomenti ed aveva un forte senso dell’umorismo, dopo l’esordio psicopatologico, l’approccio agli altri era diventato via via sempre più faticoso e problematico. Riferiva di passare molto tempo a casa propria, nella propria stanza e di avere pochi amici con cui si sentiva a suo agio.
Il suo desiderio era lavorare nel campo della fotografia.
Nel mio intervento con lui, visto il momento di crisi del lavoro ed il background sanitario di questa persona, ho deciso di puntare ad un’analisi del piano di realtà del mondo del lavoro. Lavorare nell’ambito della fotografia oggi giorno non è facile, bisogna essere molto intraprendenti, piuttosto spigliati ed avere diversi contatti.
Così ho puntato a cercare insieme a lui altri ambiti lavorativi, più funzionali alla sua ricerca, analizzando il suo curriculum scolastico e le sue esperienze professionali.
Lui è stato collaborativo e si è attivato, ha anche preso il patentino da carrellista, per cercare lavoro come magazziniere.
Io ero convinta di lavorare bene con lui, ma regolarmente lui non chiamava i numeri degli annunci, non inviava il suo curriculum oppure rimandava le telefonate… insomma, pur dicendosi motivato, lo appariva poco. Avevo anche provato a spronarlo attivamente, ma mi ero resa subito conto che questa modalità non funzionava, anzi lo portava a farsi ancora più passivo e meno collaborativo nella sua ricerca del lavoro.
Parlando con lui, lentamente ho capito il mio ruolo in tutto questo.
Presa dal mio bisogno di portarlo sul piano di realtà secondo me più percorribile, avevo scordato di legittimare e considerare anche quelli che erano i suoi desideri, gli ambiti del lavoro che appassionavano lui. In questo modo l’intervento che portavo avanti era da lui più subito che sentito come proprio. Lui non ci si riconosceva.
Questa presa di consapevolezza e la condivisione trasparente del mio errore con lui, ha favorito a mio avviso un decisivo cambio di marcia. Il mio legittimare il suo desiderio di lavorare nel mondo della fotografia, lo stargli accanto e supportarlo con fiducia su questo piano, ha contribuito a rinforzare la sua spinta a buttarsi. Poco prima dell’estate aveva così già realizzato un paio di servizi per una rivista, trovata da lui. Portava avanti dei reportage amatoriali con degli amici ed allo stesso tempo ha cominciato a candidarsi ed a fare colloqui per lavori di bollettatore, magazziniere, operaio e grafico. In queste occasioni fissava sempre con me un colloquio precedente per ‘allenarsi’ ai colloqui di lavoro, per arrivarci più sereno e sicuro.
L’alleanza tra noi due è decisamente aumentata nel momento in cui lui si è sentito riconosciuto e promosso in ciò che lui voleva realizzare, non in ciò che io ritenevo meglio e più sicuro per lui. Il fatto che io abbia cominciato a mandargli anche annunci di agenzie, studi fotografici, giornali che cercavano fotografi anche per brevissime collaborazioni o di associazioni no profit che cercavano collaboratori volontari, ha creato un profondo clima di collaborazione e fiducia tra noi due e questo è quanto.
Quanto siamo disposti a lasciare della nostra expertise per riconoscere all'altro la sua, specie quando l'altro ha alle sue spalle o nel suo presente una storia di disagio mentale? Sulla mia pelle ho realizzato quanto stare dalla parte del proprio cliente voglia dire innanzi tutto riconoscere e legittimare il suo bisogno, il suo punto di vista. In seconda battuta può essere efficace confrontarsi con lui sulle oggettive criticità, senza però 'passargli' quello che io penso sia per lui il 'modo' adeguato, l'obiettivo migliore......perchè quest'ultimo continua a restare il mio obiettivo e quindi crea incapacità, passività e dipendenza.
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giovedì 9 febbraio 2012
libertà: come liberarsi di un gesto?
Il concetto di libertà è certamente abusato oggi giorno. Diventa troppo spesso sinonimo di trasgressione, devianza, violenza verso di sè e verso gli altri..a ben rifletterci.
E come mai spesso si confondono libertà e dipendenza?
Sono alcuni mesi che affianco alcuni colleghi nella conduzione di gruppi per fumatori che vogliono smettere di fumare. Sono gruppi organizzati dalle Aziende Sanitarie in collaborazione con Associazioni come la Lega per la Lotta contro i Tumori LILT per aiutare quelle persone che, affette da tabagismo, vogliono liberarsi dalla dipendenza.
La dipendenza dalle sigarette non è diversa da qualunque altra dipendenza, quando s'instaura prende il sopravvento e nullifica apparentemente ogni possibilità di riprendere il controllo del proprio comportamento rispetto al fumo.
Nei gruppi che sto incontrando emergono tutte le sfumature dell'uso del tabacco, del senso che per ogni fumatore ha il 'fumare' ed è incredibile notare come ognuno sia diverso. Ci sono persone che usano la sigaretta per 'staccare' dalle situazioni piene di tensione, fatica, frustrazione e ritagliarsi un momento per sè, altre che se ne servono per riempire gli 'spazi' vuoti, vuoti dal lavoro, dal 'da fare', dalla corsa... altri ancora la usano come strumento per accompagnare l'attesa, lo star fermi aspettando qualcosa o qualcuno, altri si servono del fumo come mezzo per 'darsi un tono' e questo avviene soprattutto nelle persone più insicure oltre che tra i ragazzi più giovani, in cerca di un'identità forte. Allo stesso tempo, con il passare dei mesi e degli anni il fumare diventa un'abitudine, data per scontata, propria della vita di tutti i giorni e per chi vuole smettere.... diventa difficile pensarsi senza il fumo, senza le sigarette che scandiscono la sua quotidianità.
Molte di queste persone arrivano ai corsi piuttosto preoccupate, temono di non farcela. Quello che mi colpisce sempre in queste prime fasi è la bassissima soglia di potere personale che queste persone si riconoscono, le espressioni: - "non ce la faccio", "non riesco", "è più forte di me", "non dipende da me" - sono ricorrenti, come se la persona si sentisse completamente impotente rispetto ad un semplice gesto: non mettere la sigaretta in bocca.
Trovo che buona parte del lavoro che si fa nei gruppi dei Centri Anti-Fumo CAF, sia appunto quello di restituire questo potere e questo controllo alle persone, allenandole ad osservarsi nel loro comportamento di fumatrici, per meglio comprendere quali siano i loro modi di fumare ed i bisogni che le legano al fumo. Sarebbe bello se poi tutte riuscissero ad occuparsi di questi bisogni senza dover ricorrere alla sigaretta, che a sua volta frustra il bisogno di salute dell'organismo.
La maggior consapevolezza, integrata con un piano di progressivo recupero del controllo del proprio comportamento, che implica la graduale disintossicazione dal fumo, aiuta la persona a scegliere come porsi rispetto al fumo, ad avere una chance di lasciarlo andare, abbandonarlo, pur consapevole di averne conosciuto il 'piacere'. Ed è proprio la memoria del piacere che.... non muore mai e rispetto alla quale è necessario vigilare, con benevola attenzione.
Infine quando si arriva agli ultimi incontri del gruppo, ciò che mi colpisce di più sono i volti dei partecipanti, essi appaiono distesi, freschi e leggeri. C'è chi dice che sia l'effetto benefico della disintossicazione dalle tossine del fumo, io penso che oltre a questo ci sia il senso di benessere, legato al recupero di quei primordiali meccanismi di 'auto-comprensione' e di 'auto-regolazione', che rendono ogni individuo davvero libero mediante comportamenti e scelte funzionali per la sua salute tutta.
E come mai spesso si confondono libertà e dipendenza?
Sono alcuni mesi che affianco alcuni colleghi nella conduzione di gruppi per fumatori che vogliono smettere di fumare. Sono gruppi organizzati dalle Aziende Sanitarie in collaborazione con Associazioni come la Lega per la Lotta contro i Tumori LILT per aiutare quelle persone che, affette da tabagismo, vogliono liberarsi dalla dipendenza.
La dipendenza dalle sigarette non è diversa da qualunque altra dipendenza, quando s'instaura prende il sopravvento e nullifica apparentemente ogni possibilità di riprendere il controllo del proprio comportamento rispetto al fumo.
Nei gruppi che sto incontrando emergono tutte le sfumature dell'uso del tabacco, del senso che per ogni fumatore ha il 'fumare' ed è incredibile notare come ognuno sia diverso. Ci sono persone che usano la sigaretta per 'staccare' dalle situazioni piene di tensione, fatica, frustrazione e ritagliarsi un momento per sè, altre che se ne servono per riempire gli 'spazi' vuoti, vuoti dal lavoro, dal 'da fare', dalla corsa... altri ancora la usano come strumento per accompagnare l'attesa, lo star fermi aspettando qualcosa o qualcuno, altri si servono del fumo come mezzo per 'darsi un tono' e questo avviene soprattutto nelle persone più insicure oltre che tra i ragazzi più giovani, in cerca di un'identità forte. Allo stesso tempo, con il passare dei mesi e degli anni il fumare diventa un'abitudine, data per scontata, propria della vita di tutti i giorni e per chi vuole smettere.... diventa difficile pensarsi senza il fumo, senza le sigarette che scandiscono la sua quotidianità.
Molte di queste persone arrivano ai corsi piuttosto preoccupate, temono di non farcela. Quello che mi colpisce sempre in queste prime fasi è la bassissima soglia di potere personale che queste persone si riconoscono, le espressioni: - "non ce la faccio", "non riesco", "è più forte di me", "non dipende da me" - sono ricorrenti, come se la persona si sentisse completamente impotente rispetto ad un semplice gesto: non mettere la sigaretta in bocca.
Trovo che buona parte del lavoro che si fa nei gruppi dei Centri Anti-Fumo CAF, sia appunto quello di restituire questo potere e questo controllo alle persone, allenandole ad osservarsi nel loro comportamento di fumatrici, per meglio comprendere quali siano i loro modi di fumare ed i bisogni che le legano al fumo. Sarebbe bello se poi tutte riuscissero ad occuparsi di questi bisogni senza dover ricorrere alla sigaretta, che a sua volta frustra il bisogno di salute dell'organismo.
La maggior consapevolezza, integrata con un piano di progressivo recupero del controllo del proprio comportamento, che implica la graduale disintossicazione dal fumo, aiuta la persona a scegliere come porsi rispetto al fumo, ad avere una chance di lasciarlo andare, abbandonarlo, pur consapevole di averne conosciuto il 'piacere'. Ed è proprio la memoria del piacere che.... non muore mai e rispetto alla quale è necessario vigilare, con benevola attenzione.
Infine quando si arriva agli ultimi incontri del gruppo, ciò che mi colpisce di più sono i volti dei partecipanti, essi appaiono distesi, freschi e leggeri. C'è chi dice che sia l'effetto benefico della disintossicazione dalle tossine del fumo, io penso che oltre a questo ci sia il senso di benessere, legato al recupero di quei primordiali meccanismi di 'auto-comprensione' e di 'auto-regolazione', che rendono ogni individuo davvero libero mediante comportamenti e scelte funzionali per la sua salute tutta.
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